martedì 21 settembre 1999

LA LOCANDA AL CENTRO DEL MONDO: un poema apocalittico

Perso lungo le vie di Mondo,

al tramonto di un tempo lontano e perduto,

mi imbattei in una piccola Locanda.

I vorticosi pensieri miei, rapiti da venti capricciosi,

salivano al cielo, dove mutevoli onde di uragani infuocati

si schieravano in cerchio attorno all’ultimo sole.

E fulmini e saette, lucidi e forti come acciaio,

evocavano possenti cicloni che turbinavano

in dragoni furenti e affamati,

con occhi di nubi bruciate e fauci di buie tempeste.

Del disco dorato, fulcro dell’universo,

fecero piccole braci dalla debole luce

e vomitarono manna acida.

La strada, poco battuta, precipitava

in un buio viottolo di case smorte e ferite da feroci battaglie.

La Città era un pallido bagliore che tremolava nella valle.

Pochi viandanti incrociarono il mio passaggio:

un soldato mutante, senza braccia né gambe,

imprigionato nella sua armatura meccanica;

esseri volanti inumani a caccia di ordigni

inesplosi e un pachiderma artificiale

che defecava sopra ad un cadavere mutilato.

Le mura della Locanda erano luride di escrementi di ogni tipo.

E non avevano finestre che potessero incantare lo sguardo

di quel magnifico tramonto che dominava i cieli.

Il portone era di ferro battuto finemente intarsiato,

e la sua mente artificiale ne andava veramente fiera.

Un ominide deforme con tre occhi in fronte implorava la carità

Nel fango melmoso accanto all’ingresso.

Aveva addosso una logora divisa di soldato romano

impregnata di sudore e sangue,

ma regolarmente firmata Versace. Andava di moda.

L’insegna, sbilenca e danneggiata, bastava per richiamare

derelitti e miserabili. Raffigurava una donna ammiccante

con piccole corna sul capo e un bottiglia di Coca Cola in mano.

Mi avvicinai all’entrata. La sfiorai appena con la mano,

E come neve al sole, questa si sciolse in molle creta

che sparì in un anfratto nascosto. Quando fui entrato,

il ferro si rimodellò nella sua forma originale di rigido portone.

La Locanda aveva un solo grande locale

Che sprofondava attorcigliandosi nel sottosuolo

Come un turacciolo impazzito.

E i piccoli tavoli e le modeste sedie parevano

decorare le pareti di ombre arcigne.

Le bio-lanterne invece svolazzavano qua e là

come api sui fiori e la loro luce purpurea

Danzava nella polvere del pavimento.

Un fumoso affollarsi di corpi infestava

L’aria già satura di odori bizzarri e di volti maligni.

Legionari disertori puntavano scommesse

sulle corse di unicorni, che qualche tv locale

ancora fabbricava nei propri laboratori.

Un piccolo zoo di uomini-bestia,

pascolava attorno al bancone tra alcool e droghe illegali.

E deviati in abiti di carne umana,

e straccioni senza un soldo bucato zeppi di protesi,

e contrabbandieri di cervelli meccanici,

e cameriere dai seni rigonfi di gel semi-pensante

che agitavano le loro code falliche.

Insomma il comune affresco di un mondo agonizzante.

Un bisunto automa meccanico, simile ad un elfo,

raccolse il mio soprabito scuro di pesante cuoio sintetico

e il mio bastone contorto, come una serpe d’acciaio.

In un angolo, a ridosso di un vecchio Juke-box,

stavano mesti tre giovani in compagnia di tre boccali di birra scura.

Potevo quasi scorgere i cupi fantasmi

Che agitavano le nebbie nelle loro menti,

E sentire le urla di spettrali catene

Infrangersi contro i loro funesti pensieri di dolorosi ricordi.

Mentre un patto scellerato incombeva tacito con la sua lunga ombra nera.

Giunsi accanto a loro e mi sedetti senza fiatare.

Nessuno sembrò accorgersi della mia presenza.

Il barista della Locanda, un uomo-bestia dalle sembianze

di un gatto tarchiato e grasso, mi offrì un caffè nero bollente.

Non potei rifiutare, il suo aroma risollevò

In un attimo le mie ossa stanche.

Inoltre quella notte sarebbe stata la più lunga della storia dell’Uomo.

I loro volti. Come potrei dimenticarli.

Una grigia desolazione saturava

Ogni poro della loro pelle e ogni alito dei loro sospiri.

Erano molto cambiati dall’ultima volta che li avevo visti.

Joey aveva smarrito dai suoi occhi la dolce allegria della giovinezza.

E si guardava le mani, belle e curate,

come se stesse esaminando un capo d’abbigliamento da poco acquistato.

Marc invece era pallido ed emaciato, rinsecchito come una vecchia quercia.

Quanti anni avesse non potevo dirlo con certezza, forse 100, forse più.

E tremava di pallida disperazione.

Alex era serio, come un condannato di fronte al suo carnefice.

E le sue minute forme erano strette in una muta preghiera.

Mi chiese a chi fosse rivolta, a quale divinità,

anche dotata di mediocre intelletto,

che fosse rimasta ad abitare questo mondo di tristezza e squallore.

Infilai una mano nella tasca dei pantaloni

E ne tolsi una piccola moneta di metallo.

La posai al centro del tavolo affinché tutti potessero ammirarla.

Su di un lato c’era impresso il volto di Michael Jackson,

uno degli ultimi Re della Terra,

e sull’altro una costruzione stilizzata, simile ad una fabbrica,

con un nome inciso sul bordo: Sodoma Spa.

Bastò questo mio gesto per evocare il tragico passato

Che incatenava le loro vite.

Alex ritornato dal sul limbo silente allungò un braccio per afferrarla,

ma la sua mano all’ultimo si fermò e mi guardò sconcertato.

Poi trovò da qualche parte il coraggio e finalmente la toccò.

Il suo grido di dolore attirò l’attenzione dell’intera Locanda.

E le sue dita odoravano di bruciato.

Scossi la testa, deluso, e provai pietà per lui.

Allora sfiorai un piccolo tasto sul lato del tavolo

e uno schermo televisivo si sollevò davanti a loro.

Una scarica di statica. E le immagini di un vecchio film

si materializzarono nei loro occhi. Lo ricordavano bene…

Foschi bagliori graffiavano pareti fredde,

E spazi enormi si aprivano all’improvviso,

E travi e griglie e piloni maestosi e macchinari ciclopici,

E urla che laceravano la calma densa di quel luogo.

Mentre tonfi e fracassi scandivano

Attimi di terrore e pallida malinconia.

Ecco tre demoni dalle sembianza umane

che corrono, corrono, corrono,

E una preda che fugge, fugge, fugge.

Bastardo, figlio di puttana, infame aguzzino.

Si sentiva nell’eco di vasti silenzi.

E poi, il capolinea. Un abisso di fuoco metallico e nessuna via di scampo.

Hai violentato il mio amore.

Hai deriso la mia povertà.

Hai insultato la mia debolezza.

Per questo noi ti condanniamo

e con le nostre mani ora ti puniamo.

L’uomo gemeva, implorava perdono

E pregava il loro Dio perché li fermasse,

ma nulla importava ai tre demoni sanguinari.

Vendetta, vendetta, vendetta.

Un attimo. Un movimento azzardato,

E il peccatore precipitò nel rogo di fiamme e acciaio bollente.

Che brutta storia!

Una vecchia giubba napoleonica con tre teste,

ad un tavolo vicino, versò addirittura qualche lacrima,

prima di annegarsi nel vino.

Marc balbettò inutili piagnistei, come un bimbo

Scoperto a rubare marmellata, ma poi, finalmente, iniziò a raccontare…

Lei…lei era…era così fragile. Le avrei chiesto di sposarmi.

E le avrei offerto il mondo. Ma quel mostro…la prese,

davanti ai miei occhi e la violentò ed io…non riuscii a fare nulla.

Rimasi a guardarlo. La sua foga, la sua brutale passione…

Mi incantarono.

Io non feci proprio nulla. Nulla.

La poesia di quel brutale atto d’amore mi aveva rapito.

Lei mi chiamava…chiedeva il mio aiuto, ma io…

E così lui la portò via da me.

Non volle più nemmeno parlarmi.

Mi disse che l’orrore che aveva segnato per sempre

la sua carne continuava a vederlo nei miei occhi.

Nei miei occhi…ma non ero io

Il colpevole di tale violenza, era lui,

il Capo della mia sezione nella Fabbrica.

E si meritò tutte quelle fiamme di metallo

Che lo hanno bruciato. Tutte quante. Tutte.

Un giusto castigo. Giusto, sì.

E poi una mattina ho visto l’anello

che ancora brillava sul mio comodino.

Il nostro anello, quello che ci avrebbe legato

L’una all’altro, nella somma promessa.

Il sogno che scaldava i cuori di noi teneri innamorati. Già, il nostro sogno.

Un lieve ronzio gli mozzò fiato.

Con cura automatica tastò qualcosa dietro la nuca,

Appena visibile tra i suoi lunghi capelli, e riprese a raccontare.

Una triste notte, che mai dimenticherò,

mi destai in uno strano mondo.

Strano è dir poco, assurdo è la parola esatta.

Lì gli alberi hanno dita e le pietre occhi.

L’erba sospira ad ogni passo e la terra puzza di sangue.

Io, convinto fosse un incubo, aspettai il risveglio.

E attesi. E attesi. Forse giorni, forse anni.

Non lo so di preciso, il tempo in quel luogo è solo un capriccio.

E lei era lì. La mia donna. E di nuovo eravamo insieme.

Ricordo che la vidi uscire da una pozza d’acqua.

Era bella come mai lo era stata,

come una venere di un folle paradiso.

"Questa terra è tua", mi disse.

Un mondo offerto dalla mia mente malata,

visto che la mia misera vita

poté darle solo rabbia e dolore.

Ma poi tutto svanì come fumo e mi ritrovai nel mio letto,

debole e stanco e moribondo.

La notte successiva accadde di nuovo e

Quella dopo ancora e ancora e ancora.

E ogni volta che tornavo nella solida realtà

Ero sempre più provato, come se interi anni della mia vita

Mi fossero stati strappati dal sorgere del sole.

Ma lei sempre mi attendeva, appena calavano le ombre.

E mi desiderava e mi possedeva.

Ricordo le sue labbra che abbracciavano le mie

E poi salivano umide e inghiottivano il mio volto e la mia volontà.

Oppure viscida come una biscia scivolava dentro la mia gola

e nuotava nel mio stomaco, ed era così dolce perdersi nei sensi…

Non sempre però restava. Era come me certo, ma non come donna.

La sentivo nei prati gemere di lussuria, accarezzarmi la pelle

con i rami degli abeti e godere nei venti all’alba.

Quando un dì mi svegliai, il mio corpo a mala pena

rispondeva alla mia mente. Ed ero in un lago di sangue,

uscito da chissà dove forse dalla mia anima o forse da quel mondo lontano.

Capii che ero ormai prossimo alla morte.

Pensai addirittura di accelerare la mia dipartita finale,

ma sentivo che lei mi chiamava a sé

nell’eco sottile dei miei pensieri.

Mi voleva, più della prima volta che avevamo fatto l’amore

Da ragazzi dentro una siepe. Così cedetti alla pressante forza

dei suoi sogni torturatori e sadici e sprofondai nell’amore.

Ma venne il tempo che la mia sola presenza non bastava

per illuminare di grazia ogni orgasmo.

Usò il mio corpo e nel fango di quel mondo

partorì mie copie, tante, innumerevoli.

Simili e diverse, normali e deformi, e li amò come amanti e figli. E fu felice.

Ora quando cammino per strada

Li vedo, i nostri figli, li vedo nei visi

Di tutti i mostri che vagano per il mondo e ancora penso a lei.

Nei rari momenti di lucidità, libero da quelle fantasie,

desideravo di avere finalmente il coraggio di sottrarmi

A lei con la morte, ma il fato non mi venne incontro

e da codardo riuscii solo a prolungare la mia agonia.

Mi feci impiantare questo dannato attrezzo dietro al collo

e da allora ho allontanato la notte e le ombre dalla mia vita.

Ho ucciso l’amore mio impedendomi alla fonte

di continuare quella vita con lei.

Sono sveglio da tanti anni che ormai non li conto più.

Ma il mio incubo è finito. Finito.

Mi accesi un sigaro, scuro e turgido,

e contemplai il volto di Marc nel mulinare dei

rivoli di fumo che avvolgevano la mia mano.

Aveva sfogato il suo dolore ed era ripiombato

Nell’oscurità della sua esistenza, semplicemente, così come vi era entrato.

Joey proruppe in una risata isterica.

Raccolse alcune pillole di neurostimolatori dal bicchierino delle noccioline

E si rivolse a me come all’amico fraterno che non vedeva da secoli.

E tutto sommato era proprio così.

Ricordo ancora la puzza della sua urina sulla faccia.

Era divertente, diceva. Pisciava sulle monetine

e poi me le lanciava contro, con tutta la forza che aveva.

Mi faceva l’elemosina, il bastardo.

La mia disgraziata famiglia aveva lavorato nella sua dannata Fabbrica

Per generazioni, umilmente.

Strisciando nel grasso e nella polvere di metallo.

Più in basso delle macchine senz’anima che lavoravano con loro.

E lui mi odiava. Quel figlio di puttana.

Ma io tacevo e leccavo la sua merda.

Finché la mirabile visione non ha cambiato la mia vita di servo.

Sul tavolo lercio del suo ufficio profumava di incenso e mirra

Un piccolo sacchetto scuro.

Sentii nel profondo, cosa conteneva.

Oro, simbolo della grazia divina. E lo presi, senza pensare.

Era mio, lo era sempre stato.

Ma lui capì e lo pretese come suo.

E rovistò il mio corpo e le mie cose

Senza trovarlo. Perché l’oro riposava al sicuro nel mio ano. Che furbizia.

Allora mi cacciò dalla Fabbrica, tra i rifiuti della società.

E rise, rise di me. Rise della mia miseria. Rise per le montagne

di ricchezze che soffocavano le sue dimore. E rise ancora.

Ma poi toccò a me deridere la sua tragica fine nel fuoco dell’inferno.

Divertente, davvero divertente vederlo contorcersi

nel metallo che scioglieva le sue ossa e la sua carne.

E andai a casa a brindare alla mia fortuna,

danzando sotto la luna mite e bagnandomi con la leggera polvere

Del mio oro che fioccava su di me come neve candida.

Ma non potevo immaginare quale risveglio

Mi attendeva il mattino seguente.

Le mie braccia, fin quasi al gomito, erano diventate puro oro.

Ma erano vive come quando pulsavano di carne. Che gioia!

Da quel giorno in poi solo castelli,

arazzi, profumi e bellezze avrebbero

circondato la mia persona.

Ma come potevo prendere quell’oro che cresceva

sulla mia pelle. Poi capii. Afferrai un’ascia e con forza bruta

Spaccai le mie preziose ossa,

mentre atroci grida di dolore azzittivano i miei dubbi.

E ogni volta che amputavo la mia carne altro oro

nasceva dal mio sangue per formare

altre braccia, altre gambe, altra pelle

altri occhi, altri nasi, altre bocche.

E il dolore seguiva la mia ricchezza

Come l’ombra il corpo, come la morte la vita.

Più passavano gli anni più la sofferenza

Sfregiava la mia anima insaziabile,

lentamente e inesorabilmente.

E quando anche la mia coscienza si frantumò

Per terra sotto i colpi della mia ascia,

compresi quanto poco di umano restava in me.

E usai la mia fortuna un’ultima volta.

Dal metallo ero partito, così di metallo sono alla fine diventato.

Marc si tolse i guanti. Afferrò una delle sue mani e con forza

la strappò via dal polso. Plastica e articolato ferro

spuntarono da sotto la sua finta pelle. E rise, divertito.

Per salvare la mia carne ho ricostruito il mio corpo

ed ora, per triste ironia, non ne ho più nemmeno un grammo.

Buffo non trovate? Ma la mia ricchezza non mi ha abbandonato.

L’ultimo pezzo d’oro rimasto brilla nel mio petto al posto del cuore

E batte infiniti rintocchi di dolce e pregiata melodia.

Pesanti rimbombi soffocarono le parole di Joey

E il vociare caotico della Locanda.

Erano vicini.

Eserciti e armi e caduti recitavano la loro commedia forse proprio nella valle,

nell’ennesima guerra perduta dell’Uomo

che era ricominciata in quella Terra confusa di tempi e luoghi.

E che forse avrebbe avuto un esito diverso.

Alex alzò appena gli occhi. La sua voce, pastosa come melma,

uscì densa dalla bocca, quasi non appartenesse al corpo…

I ricordi del passato sono come falene

Attratte dalla fosca luce che ora illumina la mia Mente.

Ma talvolta ritornano, e scivolano sulla coscienza.

Posso quasi toccarli. Quasi.

E così li spingo verso l’esterno,

fuori dalla bocca, in un viaggio, ahimè, senza ritorno.

Da quanto tempo reclamavano la loro libertà!

Io lo amavo. Posso finalmente dirlo.

Amavo la possente mole che si trascinava

Appresso. E la brutalità che infuocava il suo sguardo.

Lo amavo quando mi picchiava, selvaggiamente,

con gli attrezzi da lavoro della Fabbrica.

Sentivo i suoi passi, pesanti,

che si avvicinavano nelle vastità oscure di quei luoghi

mentre il freddo sudore della sua rabbia bagnava il mio collo.

E i lividi rigavano la mia carne.
Desideravo quella sua forza, io, gracile mucchio di ossa,

respinto da tutti, persino dalla propria ombra.

Ma un giorno come tanti, lui smise di venire da me.

Le mie umili pene non soddisfavano abbastanza

La sua insaziabile violenza. Forse qualcun altro

Era più degno delle sue attenzioni. Già proprio così.

Ma lo perdonai. Lo perdonai quando vidi i suoi luminosi

occhi disperati mentre impotente assisteva alla sua rovina,

Dall’alto dell’abisso di fuoco che, famelico, aspettava il suo sacrificio.

E poi cadde giù, giù, giù nell’altoforno. E bruciò vivo.

In un soffio. Cosa provai in quel momento?

Nulla credo. Forse sollievo.

Il giorno dopo con il metallo, che fu la sua tomba,

Costruii una piccola pistola,

identica a quella che lui aveva tatuata sul braccio.

E il mio amore imprigionato in essa

sarebbe rimasto per sempre con me.

Toccarla mi faceva vibrare ogni membra del corpo. Era pura passione.

E la puntai contro mio padre.

Lo feci una sera, una delle tante volte che abusava di me.

Lo odiavo per questo. E lui morì.

Morì senza il minimo rumore. Morì, soltanto.

Che sensazione di maestosa potenza!

Che brividi! Che sconfinata gioia!

Non mi chiesi il perché di tale dono,

Ricordo solo che andai alla finestra e la puntai

Contro una passante, un vecchia strega cieca e zoppa.

Anch’ella cadde priva di vita.

Come se il sonno l’avesse colta all’improvviso.

Nessuna colpa. Nessuna pena.

Da quel momento in poi non ebbi più timore

Di camminare per le strade, soprattutto quelle affollate di gente.

Avevo la mia pistola. Avevo i miei cadaveri che seguivano il mio cammino.

Puntavo, desideravo e loro morivano. Semplicemente.

Ma ciò che mi eccitava maggiormente

Era guardare la televisione, quando ancora si chiamava così

e vedere i volti sconosciuti di probabili vittime.

Sceglievo e morivano. Sceglievo e morivano. Sceglievo e morivano. Tutti.

E poi venne la Storia dell’Umanità, dove una Morte

Di nero vestita, falciava uomini e donne

Come il contadino il grano, senza regole, senza arte.

E allora uccisi chi era già morto, da anni, da secoli, da millenni.

Ancora, ancora, ancora, con giudizio e fine gusto estetico.

Ero il signore e padrone delle vite degli uomini,

chi poteva essere più grande di me? Dio, forse?

E allora, un dì di primavera, puntai la mia pistola

Verso il cielo e…l’oscurità giunse sul mondo

in un interminabile tramonto.

Gettai via la diabolica arma e giurai a me stesso

Che non avrei più ucciso nessuno. Nessuno.

Ma il potere era ormai parte di me.

Ad ogni mio pensiero, la morte arrivava per qualcuno.

Anche nel sonno innocente.

Sconfinate schiere di tombe

si allungavano verso un orizzonte di tenebra,

e mi accerchiavano, e mi stritolavano sotto il loro peso.

Non potevo fermare la mia mente.

E non potevo nemmeno uccidermi,

ne avevo troppa paura. Sì paura di sprofondare

nello stesso abisso di fuoco che aveva distrutto

il mio folle amore. Andai da uno stregone

e gli chiesi di salvare la mia anima.

Mi diede una piccola croce nera e mi disse di ingoiarla.

La presi senza pensare. E da quel momento,

Lei, allucinogeno biomeccanico dissociativo, comanda

questo corpo, mentre la Mente di ciò che ero

un tempo è rivolta ad unico pensiero, una sola immagine.

Una crocifisso di ferro e carne mescolati e fusi,

raffigurante il mio perduto amore.

Gettai il puzzolente sigaro sul pavimento

E con il tacco lo schiacciai per bene.

E scivolai più vicino a loro.

Sguardi svuotati esploravano il mio volto

Per conoscere finalmente quale destino

Era in serbo per loro.

E toccava a me svelare quell’ultimo segreto.

Quale futuro credete che vi sia davanti a voi?

Chiesi con tutta la compassione che potevo manifestare.

Joey parlò per tutti. Siamo stanchi, tanto stanchi.

Vogliamo soltanto riposarci là dove regna la serenità.

Mi feci serio e loro lo notarono.

Vi capisco, figli miei, e presto avrete ciò che cercate,

ma prima dovete sbrigare le ultime faccende

che vi legano a questo mondo.

Marc pareva contrariato e stizzito si domandò quali fossero.

Il film che stavamo guardando non è ancora terminato.

Sussurrai candidamente. Pigiai un piccolo tasto sotto al tavolo

E lo schermo si animò. In coro annuirono meccanicamente.

Mani gravide del sangue appena versato si levarono al cielo.

E bocche gonfie d’ira intonarono una litania funebre.

Mentre il puzzo di metallo saliva sensuale dall’antro infernale.

Nessuno in questo mondo e negli altri che sfuggono alla vista

Potrà più rivendicare la vita che il nostro

volere ha spezzato e pretendere altra giustizia

diversa da quella che noi abbiamo pronunciato.

I giusti trionferanno sulla morte e su ciò

Che verrà dopo. Così abbiamo stabilito.

Quelle mani si aprirono rivelando una

Moneta di metallo che brillava nel buio

Questa è la nostra anima immortale,

Macchiata dal peccato che abbiamo compiuto

In nome della verità.

La piccola moneta cadde dalle loro palme

E precipitò nel fuoco.

Adesso siamo puri.

Lacrime amare imperlarono le loro gote

E dita tremanti si allungarono verso

La moneta che ancora fumava in mezzo al tavolo.

La volete? Dissi. Un sì proruppe dalle loro labbra

Come una fonte impetuosa.

E grasse risate inondarono la Locanda.

Provenivano da tutte le parti, dagli avventori,

dalle pareti, dal soffitto, e forse dal mondo intero.

E anch’io non riuscii a trattenere un sorriso nascosto.

Davvero la volete? Troppo tardi.

E la piccola Locanda sprofondò

Nella terra che l’aveva sostenuta.

Tonfi di macchine al lavoro,

E infiniti soffitti evanescenti

E gloria di ferro e metallo

Salutò il loro arrivo.

Si ritrovarono sperduti nella loro Fabbrica.

Perché? Perché? Gridarono.

E fu allora che mi riconobbero.

Io, il dannato Capo della loro Sezione, che tanto li aveva tormentati.

Questo è dunque l’Inferno? Allora le nostre pene in vita

non sono state sufficienti a pagare il nostro debito?

Io li guardai, sconsolato. Ma è questo il vostro castigo.

Il perenne perpetuarsi dei vostri dolori e peccati.

E non potete immaginare da quanti eoni

Si eterna questa penitenza.

L’ombra della morte calò sui loro visi

E spense i loro occhi.

Ma quando finirà tutto questo?

Accarezzai la frusta che tenevo

In mano e infine risposi.

Fino a quando continuerete a divertirmi.

Mentre il ricordo di tale rivelazione

Sfocava nei loro pensieri,

qualcuno riuscì a chiedermi. Ma tu cosa sei, perfido torturatore?

Il vostro Angelo Custode. Concessi loro.